Letti per voi: “Le stanze dell’addio”, di Yari Selvetella

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“Ogni macchina prima o poi manifesta un difetto, ogni organismo, ogni sistema complesso, cosa abbiamo imparato finora se non che quel che conta è la fortuna del difetto?”
La fortuna del difetto sta nella sua piccolezza, nella sua gestibilitĂ . Nella sua reversibilitĂ , anche. E invece non c’è nulla di reversibile in quello che accade al protagonista de “Le stanze dell’addio”, il libro del giornalista Yari Selvetella, una storia d’amore che non fa sconti e affronta con coraggio il tema della perdita.

La malattia di una donna giovane, bella, vitale e madre di tre figli, sconvolge con crudeltĂ  – perchĂ© non vi è altra possibilitĂ  consolatoria per accettare un evento come questo- la vita insieme, la famiglia costruita con amore, una relazione che, come pensiamo tutti dei nostri rapporti, credeva di avere sempre tempo. E’ la lunga ripresa in soggettiva di una esperienza terribile e a suo modo fondativa, che il lettore segue con un misto di empatia, terrore e sollievo, il sollievo dei salvati.
I sommersi, invece, vagano nel mondo vivendo normalmente – scrivendo, mangiando gamberi, perfino facendo l’amore – ma per sempre inchiodati a quell’esperienza che si è snodata in diverse stazioni, o stanze.

La salvezza possibile sta nel dialogo impreciso, imperfetto eppure immediato, fra il protagonista e il ragazzo del bar, uno di quei “non-luoghi” delle “cittĂ  alternative” che sono gli ospedali, luoghi a cui non sappiamo di appartenere finchĂ© non ci dobbiamo entrare. Scoprendo in quel preciso momento un altro mondo parallelo e un’altra vita possibile fatta di smottamenti delle certezze, improvvise speranze, numeri che significano probabilitĂ , la vita e la morte insieme a disegnare un paesaggio ignoto. E per chi è un “cane pastore” con i propri cari (chi di noi non lo è o vorrebbe esserlo, pensa terrorizzato il lettore, dovrei esserlo, lo sono abbastanza?), niente o quasi è peggio del non sapere, dell’aspettare.

E’ un libro duro, questo di Selvetella, e dice cose che normalmente non vogliamo sentire; e proprio per questo è utile, per non sentirci soli. Il lettore lo comprende leggendo del desiderio di raccontare “…di come la rabbia si accumuli e poi si sciolga pensando che apparteniamo all’umanitĂ , a un unico profondo respiro che mai si secca, che siamo vivi solo in mezzo agli altri, che ho voglia di lottare per le conquiste di questa vita, che sento gli altri a volte compagni sorelle e fratelli, tutti, e chi vuole rovinarci questa breve vita non merita che disprezzo e amare è bello anche se il nulla è affascinante e ci insegna molto.”

La solidarietà umana essenziale, quasi primordiale, è una possibile consolazione, questa sì. Sapere che non siamo soli, che altri hanno sofferto come noi e prima di noi e sentirlo, e che la vita prima o poi ritorna, anche.

Le stanze dell’addio, Bompiani 2017

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